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Edilizia, dal 2010 sparite 1000 imprese. Condizioni capestro per chi resiste


2014-08-27 - * Nessuna inversione di tendenza, il settore edile bresciano continua a essere inghiottito dalla crisi. In cinque anni un terzo delle aziende ha chiuso i battenti: si tratta di mille imprese che hanno smesso di lavorare. Con un numero di operai che è diminuito del 34 per cento dal 2010 ad oggi. Tra fallimenti e concordati le grandi aziende del bresciano sono scomparse quasi tutte e negli appalti importanti che interessano la provincia è difficile trovarne ancora qualcuna. «Chi è ancora in piedi — denunciano i sindacati riuniti ieri nella sede della Cisl — applica i contratti che vuole. Dall’agricoltura alla meccanica, tanti carpentieri lavorano con contratti irregolari: nei cantieri, ormai, è un far west». Una denuncia, quella delle tre sigle sindacali del settore, che si basa sui dati forniti dalla cassa edile. Per quasi un decennio, fino al 2008, la crescita speculativa del settore immobiliare aveva creato migliaia di posti di lavoro.
«Tornare a quei livelli non è ipotizzabile, nemmeno nel medio periodo» chiarisce Renzo Bortolini, segretario della Fillea-Cgil. I numeri sono inequivocabili: nel 2010 gli operai occupati nel settore edile erano 16.185, a cinque anni di distanza il numero è sceso a 10.588. Senza spiragli di miglioramento. Solo negli ultimi dodici mesi si sono persi più di mille posti di lavoro (-7,8%).
«Brescia — sottolinea Bortolini — è una delle province che esporta più manodopera. Tanti sono impiegati nei cantieri fuori provincia, soprattutto Milano». E spesso lavorano in nero, nei subappalti. E quasi a dimostrare che questo flusso «migratorio» esiste davvero, il segretario della Filca-Cils, Roberto Bocchio, invita a contare i muratori morti sul lavoro nella nostra provincia: «zero – ricorda –, ma sette quelli bresciani che hanno perso la vita nei cantieri di altre province». Anno dopo anno i problemi si sommano. E chi ancora lavora, spesso non viene pagato. Cinque o sei mesi di arretrati «sono la normalità», denuncia Bocchio. Continuano poi ad aumentare i dipendenti costretti ad aprire la partita Iva: meno oneri per le imprese, stipendio che si assottiglia e contributi che non vengono versati. L’imponibile salariale, infatti, è sceso del 35 per cento nel giro di cinque anni. E pure il numero di ore di lavoro continua a scendere: dal 2010 ad oggi se ne sono perse quasi sette milioni. Tra comuni legati al patto di stabilità e privati che sono in crisi, aumentano i casi di aziende gravate dai debiti che chiudono per riaprire sotto un altro nome. A essere danneggiati, ancora una volta, sono i tanti padri di famiglia che non possono riscuotere gli arretrati. E spesso, a causa di alcuni escamotage, nemmeno la disoccupazione. «Diversi operai — conferma Ibrahima Niane della Fillea — avevano firmato le dimissioni perché i datori avevano promesso di riassumerli in una nuova ditta». Le denunce, però, sono arrivate troppo tardi per iniziare una causa e molti sono stati raggirati. Una situazione sempre più critica dalla quale si fatica a trovare una via d’uscita. «Il progetto — spiega il segretario della Feneal-Uil Raffaele Merigo — è quello di sottoscrivere un protocollo della legalità con il Collegio costruttori». Un’idea che mira a unire le forze per limitare i danni di una crisi che non accenna a diminuire. In questa giungla di irregolarità emergono aziende meno strutturate, avventurieri che vincono gli appalti con ribassi del 30-40 per cento. «Come si giustificano?», si domanda Bortolini. Che ricorda il caso dell’ospedale di Gavardo. La ristrutturazione, oggi conclusa, era stata vinta da un’azienda veneta e il subappalto era finito ad un’impresa bergamasca. Alcuni lavori erano poi stati svolti da squadre di carpentieri romeni, sottopagati. Per mettere tutto a tacere, i caporali avevano pagato gli operai, cambiando però la squadra. E subito era arrivato un gruppo di egiziani. Un circolo vizioso che si potrebbe spezzare più facilmente «se invece della logica del massimo ribasso — sostiene Bocchio della Cisl — le stazioni appaltanti applicassero un criterio che considera l’offerta economicamente più vantaggiosa». Un’offerta che quindi mette insieme il miglior rapporto qualità prezzo. Certo serve un cambio di passo per ristabilire la legalità. E chissà se questo sarà il primo.

* Matteo Trebeschi (Corriere Brescia)

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